Un fotografo napoletano nel Far West: Carlo Gentile, padre adottivo del bimbo indiano che divenne Carlos Montezuma

Sconosciuto ai più in Italia, in alcuni documenti e anche su Internet il suo nome è stato spesso storpiato: Carlos Gentile.

Viene citato appena, Carlo Gentile (1835-1893), come figura di secondo piano nelle biografie di Carlos Montezuma (1866-1923), storico pioniere dei diritti civili dei nativi americani.
Ma Gentile, fotografo napoletano sulla Nuova Frontiera americana, fu un personaggio straordinario, innovatore tanto ingegnoso e ardito quanto sfortunato.
Come racconta la sua toccante biografia, che Cesare Marino ha raccolto in un libro, “The Remarkable Carlo Gentile. Italian Photographer of the American Frontier”.

Una storia, quella di Gentile, che Marino ha iniziato a tracciare partendo dal 1866. Quando il napoletano, spirito intrepido e fotografo di talento da tempo in America, al momento di tornare in Italia scoprì che la sua preziosa collezione di foto scattate in dieci anni passati nel West, con le quali era convinto di fare fortuna nel Vecchio Continente, era andata perduta al primo scalo, Vancouver. Disperato, ripieg su San Francisco, aprendovi uno studio, nella centralissima Kearney Street.
Forse nessuno lo ricorderebbe oggi, se un bambino indiano della tribù degli Yavapai, nato proprio in quel 1866, non avesse incrociato la sua strada.

Aveva cinque anni Wassaja (pronuncia Uassagia), “colui che che fa un gesto con la mano”, nel 1871 quando in un’Arizona in subbuglio tra febbre dell’oro, invasione di coloni e mai sopite rivalità tribali, Gentile impietosito lo riscattò per 30 dollari da un banda di indiani Pima che l’avevano rapito, lo adottò facendolo battezzare col nome di Carlos Montezuma, ispirandosi all’imperatore azteco.

Col bimbo, Gentile va a scattare foto in New Mexico e Arizona. Poi a Chicago i due lavorano con William Cody, Buffalo Bill, che riempie i teatri con un uno spettacolo rozzo, “Scouts of Prairie”, precursore di quel “Wild West Show” con cui girera’ il mondo, Italia compresa. Carlos e’ l’unico vero indiano, tra i protagonisti accanto a un’italiana, la ballerina della Scala Giuseppina Morlacchi, che interpreta la bella principessa indiana, mentre Gentile fa da fotografo alla compagnia.
Gli anni successivi, a New York, sono decisivi per la formazione del ragazzo. Non è facile la vita per un indiano, nella grande città dell’est. Gentile gli insegna ad esprimersi con poche parole, comunicare più con i gesti e le espressioni. E ad essere cortese. Ma anche a farsi valere senza paura davanti a prepotenze e discriminazioni razziali, che anche lui come italiano ha subito.

Una lezione che il ragazzo non dimenticherà, rivelandosi eccezionalmente dotato. Gentile vuole che continui a studiare e per questo lo affida dopo dodici anni ad un predicatore, mentre lui continua a girare l’America come fotografo.
Carlos ripagherà le sue aspettative: nel 1884 è il primo nativo americano a laurearsi in Scienze, poi in Medicina.

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Diventerà una figura storica nella battaglia per i diritti dei nativi americani, eternamente riconoscente al padre adottivo. Al quale invece, la sorte ha voltato le spalle. Tra incendi che devastano i suoi archivi, disastri finanziari che minano le sue iniziative, nel campo della fotografia e della stampa per gli italiani d’America. E una salute sempre più precaria.

Gentile muore a 58 anni il 27 ottobre 1893, secondo alcune fonti suicida, scrive Marino. Montezuma si prenderà cura della vedova e di un suo figlioletto, probabilmente a sua volta adottato.

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Figura carismatica e leader rispettato, Montezuma (al quale una studiosa di origine italiana ha di recente dedicato una biografia) continuerà a proclamare di dovere tutto al suo padre adottivo. Sino alla sua morte, per tubercolosi, nel 1923. Nell’Arizona in cui era nato e dove aveva voluto tornare sentendosi alla fine. E da dove un fotografo napoletano incontrato per caso l’aveva riscattato, insegnandogli a conoscere il mondo.

Nel 2014 un documentario intitolato “Carlos Montezuma: Changing is not Vanishing”, in cui compare anche Cesare Marino, è stato realizzato da University of Illinois, che aveva avuto tra i suoi studenti Montezuma.

1 Comment

  • Paolo on 18 Aprile 2008

    La storia di Torresi è una delle storie del Tech italiano che in qualche modo fanno pensare come siamo bravi a costruire…ma fino a un certo punto. Il nucleare, in cui fummo tra i primi come scienziati e tecnologie dagli anni 70-80 ha fatto una fine analoga, dal punto di vista industriale, dopo Chernobil, quindi per un fattore esterno che ci è caduto sulla testa e che ha provocato il referendum che ha fermato i programmi e di conseguenza l’industria. Ansaldo Nucleare di Finmeccanica è la fiammella rimasta accesa a Genova , con 100 persone e non fa impianti in Italia ma all’estero.. ma non è morta. Il caso Olivetti raccontato da Torresi è emblematico ma è il mercato: se non ti adegui, cambi, vendi o compri ..chiudi. Per essere positivi si può dire che quella Olivetti non c’è più ma Omnitel, gemmata da lì, ha dato una spinta fortissima al mercato della telefonia mobile facendo dell’Italia, come utenti, un leader mondiale…oggi è costola importantissima di Vodafone…ha aperto il mercato , oggi ci sono altri sempre in Italia, penso a 3 ( il ceo Novari è nato a Omnitel), i capitali dietro sono cinesi, ma che importa? questo è il mercato globale. Ivrea: vero, non è più quella di 20 anni fa, ma lì è nato 10 anni fa e vive bene il Bioindustry Park , il più importante Technopark piemontese tra i primi in Italia. Bioman, una piccola start up biotech è nata lì ed è stata una delle cinque aziende vincenti di Mind the Bridge, in Silicon Valley ai primi di aprile. Nuove Olivetti? chissà, oggi è tutto diverso ma il fatto che tante start up italiane di qualità, 50 in un mese, rispondano alla chiamata di italiani in California guidati da Marco Marinucci che li vogliono aiutare fa ben sperare…la nostra creatività è tutt’altro che spenta, magari non ci sono i grandi capitalisti ( o se ci sono pensano ad altro) ma i giovani italiani possono avere una sponda fantastica nell’esperienza e nei soldi ( why not?) di Torresi e degli altri 400 in Silicon valley che hanno tanto da insegnare, tanto entusiasmo, energia e voglia di aiutare…in sostanza io sono molto positivo rispetto a quello che sta accadendo sull’asse Italia -California da due anni a questa parte. Con questo bridge bottom-up, creativo, non guidato dimostriamo ancora una volta la nostra unicità di italiani capaci di stare ( e di adattarsi…) al mondo. Mi piacerebbe avere da Torresi il suo parere su quanto sopra.

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