“Nascere è cadere in mare…”. Le parole di Joseph Conrad nella riflessione di Claudio Magris che ha ispirato IdF

Joseph Conrad

Joseph Conrad

Non era italiano, non era certo un innovatore e non sopportava che la navigazione a vela fosse stata soppiantata da quella a vapore. Guardava con pessimismo alle vicende umane. Ma ha saputo lasciare il segno nella letteratura mondiale, scrivendo in una lingua che non era la sua.

Joseph Conrad, nato polacco col nome di Józef Teodor Nałęcz Konrad Korzeniowski, scrittore naturalizzato britannico, morto il 3 agosto di novant’anni fa (1924 a Bishopsbourne)  ha un posto speciale nella galleria dei personaggi di Italiani di Frontiera, in particolare nella conferenza Dobbiamo tutto agli Hippie,  dedicata al pensiero controcorrente come motore di innovazione e progresso e presentata per la prima volta nell’edizione 2010 della prestigiosa rassegna internazionale Frontiers of Interaction. Perché con occhio disincantato e scrittura magistrale, Conrad ha trattato alcuni temi che sono divenuti ricorrenti per IdF: realizzarsi nella sfida, affrontare il rischio e l’incertezza, la navigazione come metafora della condizione umana.

Valori che aveva esaminato Claudio Magris in un bellissimo articolo uscito 11 anni fa sul Corriere, dal titolo Conrad: nascere è cadere in mare. La vera grandezza appartiene a chi affronta con coraggio la sconfitta. La vita e il lavoro quotidiano come sfida all’ assurdo e all’ignoto. Un viaggio sull’ orlo dell’ abisso sempre sospesi tra incanto e orrore. I VALORI Fedeltà e lealtà, non possiamo rinunciare a combattere per ciò che sentiamo giusto.

Riletto ora, l’articolo di Magris conferma uno straordinario valore di ispirazione per quella che è stata la nascita stessa e lo sviluppo di questo progetto.
” Il mare, per Conrad, è come la vita; incanto e orrore, abbandono e naufragio, consunzione, immortalità, distruzione. Nascere, dice Stein in Lord Jim, è come cadere in mare e bisogna farsi sostenere dal mare senza fondo. Non c’ è un fondamento saldo su cui poggiare; non ci sono fedi o filosofie precise che garantiscano la scelta e la bontà delle azioni. Come Conrad, forse noi non sappiamo perché sia giusto essere fedeli e leali, combattere piuttosto che disertare, ma, come lui, in qualche modo sappiamo che è giusto”.

Qui in versione integrale il bellissimo articolo si Claudio Magris, Corriere della Sera 12 agosto 2003.

Joseph Conrad aveva 12 anni e si chiamava ancora Józef Teodor Konrad Korzeniowski quando, come avrebbe raccontato anni dopo, vide di nascosto suo padre Apollo, grande esponente del patriottismo polacco conculcato dall’oppressione zarista, distruggere i propri manoscritti. In quel ricordo, il padre appare allo scrittore «un uomo sconfitto» che sta compiendo un atto di resa.

È probabile, osserva Richard Ambrosini, che si tratti più di una fantasia simbolica che di un ricordo oggettivo; molti scritti del padre sono stati conservati e il suo funerale, pochi giorni dopo quella distruzione spiata dal figlio, furono un’apoteosi di folla, non certo il commiato di un vinto dalla vita.

Quando rievoca quell’episodio, Conrad ha già lasciato da tempo la Polonia, ha attraversato da marinaio e da capitano i mari del mondo e il mare della vita – le sue tempeste, le sue bonacce, il suo incanto insostenibile, i suoi gorghi melmosi – e ha scritto immortali romanzi in lingua inglese senza riuscire a parlarla perfettamente. Ma quel ritratto del padre – fedelmente ripescato nella memoria o inconsapevolmente falsificato nella rielaborazione fantastica – contiene alcuni fondamentali sentimenti, ossessioni, immagini, valori e angosce di Conrad: l’eroica sconfitta, l’impavido coraggio nell’affrontarla e un’oscura vocazione alla resa.

Forse nessuno come Conrad ha capito – e rappresentato poeticamente – come il destino dell’uomo e la legge della vita siano la sconfitta e come ciò non scalfisca la grandezza di chi, nonostante tutto, «non dà troppo peso alle cose, siano esse buone o cattive», e continua a far fronte alla sorte, ai propri errori, alle inquietudini della propria coscienza, come dice il capitano Giles nella Linea d’ombra. Molti personaggi di Conrad sono sconfitti – dalla vita, dai loro fantasmi o dai loro princìpi, dalle ambiguità della Storia e dell’animo. Vinti sono Almayer e Willems, il reietto delle isole, il capitano Lingard con la sua idea fissa, il capitano Whalley quasi cieco, sopravvissuto al suo mondo e condotto alla rovina dal suo amore per la figlia; Nostromo, il cui coraggio e la cui generosità vengono a poco a poco irretiti nella sordida degradazione di un meccanismo sociale che corrompe oggettivamente ideali e sentimenti; non sono certo vittoriosi sul proprio destino e sul proprio cuore i due più grandi personaggi conradiani, Lord Jim e Kurtz, in Cuore di tenebra. Questo sentimento della vita quale sconfitta nasce da un profondo pessimismo conservatore, che sente il tempo e la Storia come un’erosione del proprio mondo e dei propri valori – il mare che consuma la nave, la tempesta che la affonda.

A quei valori si resta orgogliosamente fedeli pur sapendoli perduti o forse proprio perché li si sa perduti, rifiutandosi di accettare i mutamenti del tempo ossia di tradire. Conrad, in fondo, non accettava nemmeno il tramonto della navigazione a vela. La fedeltà, uno dei suoi valori cardinali, è uno struggente amore della vita che rifiuta il suo cambiamento, il suo passare, la sua morte e in questa incorruttibile dedizione si irrigidisce in una perseveranza a sua volta simile alla morte. Questo sentimento conservatore non crede in alcun progresso sociale, la fede nel quale gli appare una falsificazione retorica e ottimista o addirittura uno strumento ideologico di sopraffazione. Come molti altri grandi scrittori della sua epoca, Conrad, nelle sue esplicite e spesso semplicistiche dichiarazioni politiche, è un donchisciottesco, talora patetico reazionario. In tal senso, scrive Franco Marenco, egli esprime «la grande intuizione dell’anima borghese, al crepuscolo della sua grande stagione culturale, della disumanità e dello sfacelo che nutre in sé il corpo civile». L’evoluzione della storia contemporanea, ai suoi occhi, neutralizza ed elide i più diversi, antitetici programmi politici, dal liberalismo al socialismo alla rivoluzione, in un meccanismo totalitario che stritola o integra ogni slancio individuale e impedisce reali alternative con la ferrea necessità dell’antico destino.

Ma è proprio questo cupo pessimismo storico-sociale che smaschera, forse più di quanto egli sapesse o si proponesse, le contraddizioni e gli abissi della modernità e fa, suo malgrado, di lui, come di altri grandi scrittori ideologicamente reazionari, un rivoluzionario demistificatore delle certezze e delle falsità di cui si avvale ogni potere. In qualsiasi circostanza della vita e del lavoro quotidiano l’individuo, per Conrad, è sfidato dall’assurdo e dall’ignoto. Dinanzi a questa sfida nel cuore dell’uomo ci sono, egualmente forti, due verità: la verità del «buon combattimento», come lo chiama San Paolo, ossia il dovere di dar senso all’esistenza raccogliendo quella sfida e restando sul ponte della nave anche quanto infuria il tifone, e la verità della diserzione, della resa e della fuga. Conrad le ha sentite e narrate entrambe, spesso con straordinaria poesia. La sconfitta dei suoi personaggi non è causata solo dalla disparità delle loro forze rispetto alla vita e alle cose, ma anche dalle loro sotterranee e talora sordide inclinazioni all’autodistruzione, da una simpatia per l’ombra e la resa, da un neghittoso compiacimento dell’indegnità, di cui è specchio il torpido e lussureggiante paesaggio africano e orientale, malese, rispecchiato da un linguaggio talora spesso e intricato come un’oscura, umida giungla. Così come invece il mare, narrato con altissima poesia, è lo specchio della sfida, della prova e del buon combattimento.

Conrad ha sentito fortemente tutta la propensione all’abiezione che c’è, in forme diverse, nella coscienza e nell’inconscio degli uomini. Il tradimento di Razumov, in Sotto gli occhi dell’Occidente, la codardia di Verloc nell’Agente segreto, le cupe perfidie in agguato in tanti racconti, la crudeltà di Kurtz o il momento di viltà di Lord Jim nascono da verità dell’animo umano che, per essere anche turpi, non sono meno vere e autentiche. Conrad ha capito che, nel mezzo del «buon combattimento» cui spesso andiamo incontro con forze impari, è forse inevitabile l’impulso di disertare, di fuggire, di sparire, come quel capitano di Lord Jim che scompare nel brulicare della gente sulla costa del Pacifico, come Lord Jim stesso che fugge dalla propria onta in luoghi sempre più sperduti dell’Oriente o come Kurtz sprofondato nelle tenebre africane e in quelle del male. Disertare non è solo una debolezza o una viltà morale, è una verità (una delle verità) dell’animo umano, in cui – si dice nella Linea d’ombra – c’è una «disponibilità all’essere ma anche a non essere», una nostalgia della materia inerte, un desiderio di cancellarsi e di perdersi o addirittura, come in Kurtz, di mimetizzarsi nell’abiezione. Questo impulso ad arrendersi e ad abbandonare il proprio posto c’è, più o meno nascosto, anche nel cuore di ogni bravo soldato che pure sa restare al suo posto.

Proprio perché ha fatto i conti così a fondo, calandosi nel buio delle pulsioni, col male, Conrad può raccontare con tanta grandezza e verità il coraggio e la fedeltà di chi accetta il buon combattimento, di chi come Lord Jim risale dal fondo della vergogna, di chi pur nel groviglio dei sentimenti sa attenersi alla secchezza dei fatti, compilare con esattezza avvisi ai naviganti e guidare la nave, magari senza genio, come il limitato capitano Mac Whirr in Tifone ma tenendo testa alla furia del mare. Tutto è e rimane ambiguo; anche la pietà – in un capolavoro come Il negro del Narciso – può sconfinare con l’infamia, ma solo il coraggio e la lealtà che affrontano il male possono capirne l’essenza. Nel Compagno segreto, il capitano si identifica con l’assassino, suo torbido sosia, e lo lascia al libero mare, ma rimane fermamente al proprio posto.

Animato da sentimenti omerici, Conrad si immerge nei meandri più limacciosi della modernità; è una specie di Kafka uscito all’aria aperta e al grande vento del mare, che aiuta a capire meglio anche l’aria viziata degli uffici kafkiani. È uno scrittore classico che racconta la dissoluzione di ogni classicità e di ogni lineare nettezza in un labirinto in cui tutto si aggroviglia; un maestro che ha creato strutture narrative tortuose e complesse come la vita che raccontano, riscattando così una certa retorica, una certa lutulenta enfasi linguistica o altri limiti della sua scrittura – ad esempio impappinata dinanzi al sesso, come altri grandi scrittori «coloniali», forse intimoriti dalle mescolanze e dai meticciati d’ogni genere che eros scatena.

Il mare, per Conrad, è come la vita; incanto e orrore, abbandono e naufragio, consunzione, immortalità, distruzione. Nascere, dice Stein in Lord Jim, è come cadere in mare e bisogna farsi sostenere dal mare senza fondo. Non c’è un fondamento saldo su cui poggiare; non ci sono fedi o filosofie precise che garantiscano la scelta e la bontà delle azioni. Come Conrad, forse noi non sappiamo perché sia giusto essere fedeli e leali, combattere piuttosto che disertare, ma, come lui, in qualche modo sappiamo che è giusto.

 

L’AUTORE Indie, Africa, Borneo: una vita sulle onde
Jozef Teodor Konrad Korzeniowski nasce il 3 dicembre 1857 a Berdichev (oggi Ucraina), da una famiglia polacca (suo padre Apollo, patriota dell’antica aristocrazia terriera, viene esiliato per anni in Russia). Studia a Cracovia; a 16 anni parte per Marsiglia e si imbarca per la Martinica; viaggia nelle Indie, in Africa, in Malesia, nel Borneo, passando alla marina britannica. Promosso capitano, diventa cittadino inglese. Nel 1889 inizia il primo romanzo, in lingua inglese, La follia di Almayer, cui seguono Un reietto delle isole (’96), Il negro del «Narciso» (’98), Lord Jim(1900), Cuore di tenebra (1902), Tifone (1903), Nostromo (1904), L’agente segreto (1907), La linea d’ombra (’17). Muore per un attacco di cuore il 3 agosto 1924. È sepolto a Canterbury.