Adriano Celentano, un fenomeno unico per capire il rapporto controverso dell’Italia con la modernità

 

Quando nel 1962 esordirono a Londra dei ragazzi inglesi che 55 anni dopo sono un fenomeno unico di longevità col marchio Rolling Stones, in Italia un giovanissimo cantante aveva già raggiunto una popolarità tale da esser chiamato a interpretare se stesso, figura iconica della modernità trasgressiva rappresentata dal rock, in una pietra miliare della storia del cinema e del costume italiano: La dolce vita (1960) di Federico Fellini.

Adriano Celentano ha compiuto 80 anni e chiedersi come sia riuscito da cantante, attore, personaggio televisivo, predicatore mediatico a rappresentare una figura così potente per 60 anni nell’immaginario popolare di generazioni diverse forse aiuta un po’ a capire l’Italia stessa.

Ci abbiamo provato con una lunga telefonata, io che da anni mi occupo di cultura dell’innovazione con Italiani di Frontiera e un amico come Davide Bennato, docente universitario ed eccentrico esperto di sociologia dei media ai quali ha dedicato numerosi saggi (in arrivo uno sulla bellissima serie tv Black Mirror), per un articolo comparso su Linkiesta.

Roberto – “C’è un modo di pensare diffuso che frena l’innovazione in Italia, di diffidenza verso ogni cambiamento, temuto addirittura come minaccia a un’identità proiettata in un Piccolo Mondo Antico ideale e mai esistito come la Padania… quando ho cercato di dargli un nome mi è venuto spontaneo chiamarla “Sindrome del ragazzo della via Gluck”. Ma chi l’ha detto che si stava meglio quando ci si lavava giù nel cortiile??? Celentano è stato sempre cantore di questa nostalgia dei bei tempi andati, idealizzati…”.

Davide – “Celentano è riuscito a traghettare la cultura dell’Italia contadina del dopoguerra nel nuovo mondo della rivoluzione dei consumi e dei linguaggi giovanili, intercettando la modernità senza comprenderla fino in fondo. Sancire la nostalgia di un’arcadia perfetta nelle canzoni che si oppongono a un’Italia di operai (Il ragazzo della via Gluck) o nella cinematografia che irride alla modernità borghese (Il bisbetico domato, Castellano e Pipolo, 1980), intuire tanti cambiamenti nelle forme culturali, come nell’uso del collettivo creativo attraverso il Clan o anticipando la sensibilità rap in Prisencolinensinainciusol. Ma il Clan sembrava il progetto di un gruppo di amici del bar più che una factory warholiana, il rap una presa in giro della fonetica delle canzoni anglosassoni famose, un po’ come fanno i bambini quando cantano senza sapere le parole. Intuizioni frutto del buonsenso tipico della gente di campagna, più che figlie di una riflessione sul contemporaneo”.

Roberto – “Intercettare la modernità senza comprenderla a fondo… Davide non ci crederai ma ho appena chiesto un parere sul Celentano nella musica a un altro vecchio amico, Giò Alajmo, per 40 anni giornalista musicale del Gazzettino e oggi blogger della testata online Spettakolo… Ecco il suo prezioso contributo: ‘Antimodernista Celentano? Certo. Ma anche un rivoluzionario, per quel che ha seminato ed è stato raccolto da altri, più che per quel ha fatto. Ha portato semi nuovi, quelli del rock che altri han fatto germogliare, pur provenendo da un mondo vecchio, con una visione del mondo da vecchio contadino, popolaresca, mistica, farcita di luoghi comuni, l’anti intellettuale per eccellenza. Ma dopo tutto, cosa aveva fatto Elvis Presley? Non capiva il mondo nuovo, era legato a un mondo tradizionale, quello del country, si era impossessato della musica dei neri che erano ancora segregati, non era Dylan ma la sua negazione. Eppure lui ha ispirato il nuovo in Dylan, come nei Beatles, che sono stati i veri innovatori. Come se una generazione che era un passo indietro, di fatto… avesse precorso i tempi, propiziando il nuovo. Come è successo al beat italiano, che viveva di cover del rock anglosassone ma così facendo alla fine ha favorito la nascita di musica nuova come il progressive di Area o Premiata Forneria Marconi…’ Incredibile come Giò sia in linea con le tue osservazioni”.

Davide – “La modernità kitsch di Celentano sta in questo suo messaggio: non c’è elemento della contemporaneità caotica e industriale che non possa essere ricondotto alle forme della saggezza popolare proveniente dalle campagne. La sua innovatività nel sancire caparbiamente la sua non appartenenza al moderno… usando proprio il linguaggio del moderno. La legittimità dell’ignorante è quella di chi sa che può affrontare il mondo con l’umiltà della saggezza contadina e non con l’arroganza di chi si crede esperto grazie ad un uso – ingenuo – di Google. Sono questi gli elementi che rendono Celentano un personaggio assolutamente coerente, dal rock di 24 mila baci al contadino ruspante e un po’ ingenuo di Serafino (film diretto da Pietro Germi nel 1968). Senza dubbio un maestro, soprattutto perché questo suo ribadire la semplicità è stato molte volte controverso e controcorrente. Come giustificare senza sarcasmo un film come Joan Lui (scritto e diretto da Celentano nel 1985) in cui un predicatore cantante e ballerino si comporta come un redivivo Gesù per affrontare i mali dell’Italia? Un flop commerciale assoluto frutto di una tensione religiosa che strideva nell’Italia dell’edonismo reaganiano. Oppure come giudicare le sue apparizioni televisive come conduttore di Fantastico 8, celebri per le sue lunghe pause silenziose diventate un marchio di fabbrica di successo, in una televisione rumorosa e sincopata, che lo resero inquietantemente simile al vecchio telepredicatore del film Quinto Potere di Sidney Lumet (1976)”.

 

Roberto – “Certo che oggi Il re degli ignoranti titolo scelto da Celentano per un album e un libro (1991) diventa un quarto di secolo dopo un tema purtroppo di straordinaria attualità: l’ignoranza esibita con orgoglio, l’incompetenza celebrata come titolo di merito, ostentando l’approccio istintivo e irrazionale anche a temi delicati e complicati, chiave di interpretazione semplificatoria di una realtà complessa è più che mai d’attualità. Mette i brividi rileggere oggi i tentativi di scienziati, giornalisti o ministri che negli anni hanno tentato di contestare, dati alla mano, affermazioni infondate che il Molleggiato ha dispensato con toni da predicatore e una spaventosa potenza mediatica su giornali e in trasmissioni di grande ascolto, in materia di aborto, di trapianti, di cure farlocche come il caso stamina. Anche su questo Celentano ha precorso i tempi. Non c’è verso di opporsi alle fake news invocando una razionale adesione ai fatti, concordano oggi numerosi esperti, visto che i falsi suscitano un’adesione emotiva, che spesso addirittura si radicalizza, di fronte al contraddittorio…”.

Davide – “A ben vedere il suo atteggiamento è paradossale solo in apparenza: quando un medium appare sulla scena sociale si trova costretto ad assorbire contenuti dei media precedenti. Il contenuto di un medium è un altro medium, affermava Marshall McLuhan ne Gli strumenti del comunicare. E questo rappresenta la sintesi e il successo di Adriano Celentano. Il contenuto della sua esperienza artistica è la statica, bonaria, ideologica rilassatezza della campagna e della natura pre-industriale, con la chiave di un’ecologia idealizzata. Lo è stato nelle canzoni, lo è stato nei film, lo è stato nella sua esperienza televisiva”.

Roberto – “Sì ma c’è qualcosa in più. Da dove viene questa sua forza comunicativa, oltre che dalla nostalgia camuffata da modernità? Come mai Celentano è rimasto simpatico, anche quando ha sparato cavolate astruse, di cui vergognarsi? E ne ha sparate tante… Ma perché da decenni non è più solo un personaggio ma una maschera, un archetipo. La figura del “folle” che andando controcorrente dimostra saggezza, capacità di guardare più lontano, tipica della cultura yiddish (motivo per cui il Charlot di Chaplin si guadagnò l’etichetta di “ebreo virtuale”) ma anche della Commedia dell’Arte, diventa inattaccabile.Tentare di contestare le affermazioni di Arlecchino sarebbe come sfidare con la spada un pupo siciliano: si scivola nel ridicolo. Non bastasse, nulla garantisce consenso in Italia quanto la smania di proclamarsi “antitaliano”. Dunque tuonare contro i vizi dell’Italia moderna tirandosene fuori, perché è sempre colpa degli altri, magari in nome di un passato semplice, genuino… e inventato ha sempre avuto successo. Dopo tutto, nessuno l’aveva capito come Giorgio Gaber, che ironizzò garbatamente mezzo secolo fa sulla retorica pomposa del Molleggiato con La risposta al ragazzo della via Gluck e C’era una volta il Clan: Celentano è una figura importante, per capire l’Italia. Ma è sempre stato preso troppo sul serio. E che oggi Il re degli Ignoranti sembri una figura più attuale che mai inquieta un po’…”.