Giovanni Miani “Leone Bianco del Nilo”. Esploratore temerario e sfortunato da Rovigo all’Africa

“…Ho fatto scavare una fossa per seppellirmi e i miei servi mi baciano le mani dicendo: Dio voglia che tu non muoia… Addio tante belle speranze, sogni della mia vita. Addio all’Italia per la cui libertà anch’io ho combattuto. I posteri vedranno anche che io ho fatto un viaggio storico. E se anche vivo, ci sono forse compensi a tanti patimenti?”.
Sono le ultime parole, scritte nel cuore dell’Africa, del diario di un personaggio straordinario e sconosciuto ai più, soprannominato “Il Leone Bianco del Nilo”.
Centocinquantadue anni fa, 1872, si concludeva amaramente l’esistenza di Giovanni Miani, che di vite ne aveva vissute tante. Sino ai 14 anni a Rovigo dov’era nato nel 1810, figlio di padre sconosciuto, un marchio di “figlio bastardo” che gli lasciò un’inesauribile voglia di riscatto. Poi a Venezia dove la madre era al servizio di un facoltoso nobile, Pier Alvise Bragadin, che probabilmente era suo padre e che gli consentì un’educazione principesca, lasciandogli pure una cospicua dote.
Da quel momento, le vite di Miani sono all’inseguimento tenace di sogni ambiziosi, mai realizzati.
Dopo numerosi viaggi in Europa, il progetto di scrivere una storia universale della musica, sostenuto da Gioacchino Rossini, che gli lascerà, vista l’abilità nel disegno, la capacità di illustrare con eleganza strumenti musicali di ogni Paese.
Nel 1848, la breve illusione carbonara di liberarsi del giogo austriaco lo vede tra i difensori di Forte Marghera a Mestre. Poi la fuga per evitare la prigionia. Malta, Costantinopoli ed Egitto. Da quei viaggi l’idea di cercare Ophir, mitica regione ricchissima, citata dalla Bibbia, che sarebbe stata alle sorgenti del Nilo.
Dopo un viaggio nel 1857, progetta la prima spedizione, francese, finanziata generosamente da Napoleone III. Un’odissea di caldo, fatica, stenti, animali feroci e ostilità di tribù locali, con cui ha violenti scontri.
Ma il suo sguardo da italiano colto cattura impietosamente i risvolti del colonialismo. Gli indigeni sanno essere crudeli ma sono esseri umani che conoscono il bene, la cui vita è stata stravolta dal fiorire del commercio di schiavi, da saccheggi e prostituzione che accompagnano il passaggio di esploratori avidi e spietati, che fanno odiare i bianchi.
Al ritorno da una seconda spedizione, veste all’orientale, con turbante e barracano, cose che non lo rende simpatico ai veneziani, ai quali dona 14 casse di reperti tra cui armi, tessuti, minerali, antichità, strumenti musicali, in parte ancora esposti al Museo di Storia Naturale.
Nel frattempo, due esploratori inglesi, che probabilmente hanno boicottato la sua spedizione, hanno raggiunto il lago, ribattezzato Victoria, sorgente del Nilo, cosa che lo abbatte profondamente.
Il suo terzo viaggio lungo il Nilo bianco, sarà l’ultimo, fatale. Si ammala, vien abbandonato dalla sua carovana. Alcuni esploratori di passaggio lo portano in un villaggio dove un anno dopo, sempre più debole, muore. Dopo una vita dedicata a inseguire obbiettivi ambiziosi, mai raggiunti, per cercare il riscatto del “figlio bastardo” che era stato.
Grandi avventure, grandi sconfitte, grande capacità di osservare, raccontare, documentare controcorrente le sofferenze di Paesi lontani. In regioni nel cuore dell’Africa che due secoli dopo sono ancor oggi al centro di conflitti, colossali interessi di sfruttamento, povertà, che rimbalzano sino a casa nostra con il dramma dei profughi.
Nel 2022, a 150 anni dalla sua morte, Rovigo gli ha reso omaggio ospitando a Palazzo Roverella una bellissima mostra a lui dedicata,”Giovanni Miani. Il Leone Bianco del Nilo”.
Qui sotto invece il video dedicatigli nella ricorrenza dai Musei Civici di Venezia, che espongono molti degli oggetti che Miani portò in patria.